Scuola: la nuova Chimera

“Non bisogna ammetterlo ma di tutto ciò che facciamo qui a scuola dalla mattina alla sera, cos’è che ha uno scopo? Che cosa se ne ricava? Per sé, voglio dire […]. Sappiamo di aver imparato questo e quello […] ma dentro siamo rimasti vuoti”.

Sono parole del Giovane Törless di Musil che Franco Moretti (fratello del ben più noto regista Nanni) commenta magistralmente in questo modo: “Ma dentro… Ecco il difetto della scuola: insegna ‘questo e quello’, dedicandosi al versante oggettivo della socializzazione […]. La scuola si occupa di mezzi, non di fini; di tecniche, non di valori. Purché sappia la lezione, un alunno non è tenuto a credere nella sua verità.” (Il Romanzo di Formazione).

Proprio da queste parole vuole partire la mia riflessione sulla scuola pubblica, ormai ridotta dalle numerose riforme (Berlinguer, Moratti, Fioroni, Gelmini) a una caricatura goffa e grassa della mitologica Chimera. La bestia mitica, formata da parti del corpo di animali diversi, rende perfettamente l’idea del problema. Se una volta, come dice Moretti, la scuola insegnava almeno “questo e quello”, ora, il semplice fatto che un consistente numero di persone frequenti dei corsi di creative writing, in cui rudimenti di natura poetico-narratologica sono venduti come se fossero arcani segreti, la dice lunga sui metodi di insegnamento usati dall’attuale corpo docenti.

E sottolineo l’attuale corpo docenti, perché sono fermamente convinto dell’esistenza di un intero popolo di giovani professori, molto simili al Robin Williams del film “L’attimo fuggente”, che da anni attendono invano di essere iniziati ai chimerici ingranaggi della scuola pubblica per poterli lubrificare dall’interno.

D’altronde sono gli stessi professori universitari a dire che i correnti metodi pedagogici sono ricoperti dalla muffa: “Non appena […] la poesia approda alla scuola secondaria e diventa disciplina, programma obbligato e svogliatamente svolto, materia museale, storia della poesia – secondo l’inveterata consuetudine storicistico-idealistica che ancora informa il nostro ordinamento scolastico – anziché poesia in atto, in scena o semplicemente in pratica, quella spinta giocosa e istintiva impallidisce e declina, diventa peso, fatica, archeologia del linguaggio, modo complicato e ampolloso di ornare concetti semplici […]”. Così Alberto Bertoni in un recentissimo libro (La poesia Contemporanea, Aprile 2012).

Ma gli esperti demagoghi della parola pubblica, ovvero i conduttori delle edificanti trasmissioni televisive che, quotidianamente in onda da una torre d’avorio, discutono di politica e società; direbbero che alla base di una didattica ormai guasta e obsoleta converge una concomitanza di rapporti di causa-effetto, tutti terminanti con il suffisso “–logici”: politologici, sociologici, antropologici, psicologici, pedagogici, ecc. ecc.

Questi signori dimenticano, o fanno finta di non vedere, la radice del guasto:

Come si può incentivare lo studio con la meritocrazia quando i numerosi exempla forniti dalla nostra brillante classe dirigente, puntualmente, disattendono questo principio?

Oltre alla meritocrazia l’altro grave problema che affligge l’insegnamento è la vittoria sulla cultura della televisione e delle arti passive, cioè quelle arti che:

“Non creano necessariamente consenso, ma una subordinazione alla loro versione della realtà”

(Northrop Frye, Cultura e miti del nostro tempo).

La chimerica istituzione pubblica non insegna più. Al suo posto ci pensa la televisione ad allevare la nostra prole di ragazzini e a formarli a pane e “Grande Fratello”.

Nel 1967 proprio il critico canadese, Northrop Frye, in una serie di conferenze tenute per il centenario della fondazione del Canada, parlava del tempo libero paragonandolo ad un campo di battaglia. Una scacchiera su cui le arti attive (letteratura, musica, pittura, scultura, etc…) e quelle passive (pubblicità e propaganda) si contendevano il predominio sull’istruzione, e quindi sulla mente, dell’individuo. Oggi, a distanza di quarantacinque anni dai discorsi di Frye, possiamo facilmente intuire chi è il vincitore di questa battaglia.

Se ai tempi di Frye un ragazzo poteva ancora chiedersi: “Leggo un libro o accendo la TV ?”, oggi questa domanda non viene più formulata: i ragazzi accendono direttamente la TV.

Ma l’esempio più evidente dell’effetto corrosivo della televisione non è rappresentato tanto dai libri, quanto dai Conservatori musicali. Nel momento in cui la nascita, la formazione e la maturazione di un musicista, di un cantante o di un ballerino, diventano uno show televisivo (montato ad arte come il più melodrammatico dei feuilleton) chi crederà più nel “Potere formativo” dei Conservatori, quando questo “Potere” è nelle mani della televisione e degli spettatori da casa (i cui giudizi sono alquanto discutibili)?

Ed è così che i Conservatori sono diventati dei simulacri vuoti, pallido riflesso di un glorioso passato.

La corrosione dei mass media sulla cultura ha trovato campo libero proprio perché l’immagine della “Cultura” si trova in un rapporto simbiotico con la “Scuola”. Parlare di “Cultura” con un sedicenne significa parlare di “Scuola”. I libri, le poesie, la letteratura, tutto è “Scuola”. Inutile dire che “Scuola” significa anche “Noia” e quindi, per una banale sillogismo, anche “Cultura” significa “Noia”.

Di fronte a queste difficoltà Internet, come ho già detto più volte, può essere lo strumento giusto per creare una nuova Arcadia. Un luogo dove chi è interessato potrà discutere di problemi del presente, di tendenze letterarie e dove, soprattutto, si potranno formare nuovi lettori.

In questo modo chi ama i libri non si sentirà più “Unico al mondo”, ma potrà trovare un rifugio che vuole essere anche un punto da cui ripartire…

… per costruire una nuova idea di Cultura.

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